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Meraviglie letterarie in Val di Noto
Di Ibla, Modica, Scicli e dell'intera Val di Noto non rimasero che macerie dopo il sisma del 1693 e quasi 60.000 vittime. Ma i Siciliani, caparbi, fanno rivivere quei luoghi di una nuova eccezionale bellezza tanto che nel 2002 sono dichiarati patrimonio dell'Unesco. Se volete vivere questi luoghi, passeggiare tra vicoletti silenziosi, attraversare piazze che si affacciano sul mare per scoprire porticcioli da set cinematografico, in cui si fondono e si combinano arte e natura siete nel posto giusto. Potreste atterrare all'aeroporto "Pio La Torre" di Comiso per visitare le città della provincia di Ragusa e poi di Catania, da cui poi potreste ripartire dal "Fontanarossa". O, se preferite, fare, come nel nostro caso, il percorso inverso.
La prima meraviglia che atterrando vedrete è "tutto ciò che la natura ha di grande, tutto ciò che ha di piacevole, tutto ciò che ha di terribile": l'Etna con il suo profondo cratere nero, un luogo dove mito, natura e culti antichi si fondono. Pindaro la canta così:
L'amore per Catania e i suoi luoghi trova spazio nell'animo passionale di Goliarda Sapienza. In Io, Jean Gabin, scrive: "Mi trovo nella piazza del Duomo sterminata nel sole di mezzogiorno che dritto picchia le sue saette rossigne sul dorso di lava del monumento all'Elefantino; mi piace quell'Elefantino sempre sonnacchioso e indifferente sia al traffico infernale del giorno sia alla quiete paurosa della notte".
Noto è la perla del Barocco perché in questa città si esprime con prepotenza nei mascheroni che esorcizzano la paura per i terremoti e nelle architetture fra cui spiccano Palazzo Nicolaci, la chiesa di Santa Chiara con il convento delle Benedettine e la superba Cattedrale Di San Nicolò. E se siete amanti della natura non potete non visitare la riserva di Vendicari con le meravigliose spiagge di Calamosche, Eloro, Marianelli, della Tonnara e della Torre Sveva. Non a caso anche Bufalino consiglia: "Andate a Noto, datemi retta...questo è un luogo che, se uno ci capita resta intrappolato e felice, chi lo muove più".
Spostandoci più a ovest troviamo Ragusa con le sue viuzze, i suoi livelli, da cui tra maschere e ringhiere barocche si arriva iusu cioè ad Ibla, la Ragusa inferiore. Ma a questo punto del nostro viaggio bisogna essere coscienti che, come scrive Bufalino "ci vuole una certa qualità d'anima, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia; ma anche si pretende la passione per le macchinazioni architettoniche, dove la foga delle forme in volo nasconde fino all'ultimo il colpo di scena della prospettiva bugiarda." Se ritenete di esserne dotati possiamo andare a scoprire questa Sicilia nota al grande pubblico per essere set di Montalbano, magari dal 13 al 16 giugno quando si terrà la X edizione di A tutto volume - Libri in Festa per un weekend tra libri e Barocco con gli scrittori più amati e lettori appassionati. Quattro guest director, Loredana Lupperini, Massimo Cirri, Antonio Pascale e Telmo Pievani, condurranno alcuni degli incontri della rassegna; anche quest'anno l'organizzatore, Alessandro Di Salvo ideatore e promotore della manifestazione assieme alla Fondazione degli Archi, è riuscito a portare nomi prestigiosi come Bortoli, De Giovanni, De Silva, Dondoni, Fornero, Minoli, Terranova; per la prima volta due sezioni speciali: un appuntamento notturno con musica e reading e dibattiti su temi di attualità. Spazio anche al Premio Goliarda Sapienza con un reading di Malafollia. Infine la Lupperini condurrà un talk con i cinque finalisti della LXXIII edizione del Premio Strega, nominati il 12 giugno.
Riprendiamo il nostro tour visitando Modica, "la città delle cento chiese", famosa in tutto il mondo per il cioccolato, prodotto secondo un'antica ricetta maya e tramandata di generazione in generazione. Città natale di Salvatore Quasimodo cantata nei suoi versi assieme a tutto il paesaggio siciliano e alla Grecia in un viaggio tra luoghi e memoria, tra esistenza e mito: "Anch'io non ho cercato lontano il mio canto, e il mio paesaggio non è mitologico o parnassiano: là c'è l'Anapo e l'Imera e il Platani e il Ciane con i papiri e gli eucalyptus, là Pantalica con le sue tane tombali scavate quarantacinque secoli prima di Cristo, "fitte come celle d'alveare", là Gela e Megara Iblea e Lentini: un amore, come dicevo che non può dire alla memoria di fuggire per sempre da quei luoghi".
"Sorge all'incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto d'una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini. (...) chi vi arriva dall'interno se la trova d'un tratto ai piedi, festosa di tetti ammucchiati, di gazze ladre e di scampanii; mentre chi vi arriva venendo dal non lontano litorale la scorge che si annida con diecimila finestre nere in seno a tutta l'altezza della montagna, tra fili serpeggianti di fumo e qua e là il bagliore d'un vetro aperto o chiuso, di colpo, contro il sole". È così che vi conquisterà Scicli, una cittadina incastonata tra le colline, come la racconta Elio Vittorini "con case per ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo del letto di una fiumara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini." o, come la ricorda Bufalino "nell'estrema propaggine della Sicilia (da un'altura, nei giorni chiari, chi ha vista acuta può scorgere Malta; e, se soffia un certo scirocco, piombano sulle soglie a morire le locuste del Faraone); in un paese, Scicli, di palazzi biondi e grotte grige, usate fino a ieri per bivacchi e case di poveri...".
Marta Galofaro
Che barba questi Promessi sposi!
Che barba questi promessi sposi!! Ancora nel 2019 questo mattone di XXXVIII capitoli viene propinato ai poveri ragazzi del biennio della scuola superiore. Che poi, parliamoci chiaro, se Lucia si fosse concessa a Renzo, senza fare la cattolica preziosa, ci sarebbe stato bisogno di scrivere tutte queste pagine?
Eppure bisogna considerare che tutte quelle pagine sono necessarie a conseguire tutti gli obiettivi che quel megalomane del Manzoni si era proposto di raggiungere, cioè semplicemente: creare la lingua di una Nazione che ancora doveva nascere, cioè progettare un romanzo per l'Italia quando ancora non era l'Italia, ambizioso tanto da voler superare persino il padre Dante nella scelta della lingua; arrivare a tutti e dare insegnamenti, scrivere un classico scegliendo, in maniera originale per l'epoca, la prosa.
Un classico...pare facile...ma qual è la ricetta per scrivere un classico? L'unica cosa di cui era a conoscenza è che "un classico abita nei classici". "Così volle scrivere un romanzo che contenesse l'Iliade, l'Odissea, Il De rerum natura. Lucia rapita come Elena (come direbbero i Greci archè kakòn in entrambe le opere), le peripezie e i viaggi di Renzo come quelle di Ulisse, la drammatica immagine di morte della peste come nel Decameron e nel De rerum natura, "l'universale dissolvimento della vita civile".
Non solo l'ambizioso è riuscito nel suo intento, ma ha fatto molto di più e Renzo e Lucia, Gertrude e Don Abbondio, i bravi e Don Rodrigo sono famosi quanto Lionel Messi e Belen Rogriguez perché, come scrive Pasolini, "I personaggi del Manzoni sono diventati più ancora che quelli di Dante o dell'Ariosto qualcosa come i personaggi delle carte da gioco: si riconoscono per un ghirigoro codificato e fissato per sempre da regole accettate da tutti ormai involontariamente. Si parla di «Lucia», di «Don Abbondio», di «Fra Cristoforo», dell' «Innominato», come appunto, mescolando disinvoltamente un mazzo di carte. Ognuno tuttavia gerarchizza queste figure secondo le proprie opinioni e i propri gusti", come a dire di preferire Di Maio a Salvini, o viceversa, apprezzarli entrambi o non stimarli affatto. Per non parlare dei luoghi comuni linguistici che ha prodotto Manzoni con il suo romanzo: "verrà un giorno" è espressione con una connotazione vagamente vendicativa dell'uso quotidiano; "vaso di terra cotta" equivale a cuore pavido inadeguato a superare le prove della vita; "tizzone d'inferno", l'esclamazione di Agnese al cap XXIV, è divenuta il motto distintivo del Kit Carson di Tex Willer. "La sventurata rispose" esprime il dramma di una ragazza che in realtà sapeva già cosa avrebbe dovuto rispondere. Per non parlare della frase che ormai è parte del patrimonio nazionale e vive nel nostro inconscio collettivo: "questo matrimonio non s'ha da fare!".
Inoltre il romanzo di Manzoni, considerato démodé e terribilmente noioso, a saper leggere tra le righe, è un classico attualissimo. Lucia viene rapita da Don Rodrigo che vuole esercitare su di lei lo ius primae noctis,oggi le ragazze di colore sono rapite e messe in strada da trafficanti senza scrupoli. Renzo è un self made man, donna Prassede la bigotta con la presunzione di saper sempre tutto e di essere nel giusto solo perché cattolica, il cancelliere spagnolo Antonio Ferrer la persona ambigua, il cui linguaggio pubblico e quello intimo, espresso non a caso in due diverse lingue, esternano concetti completamente opposti. Perpetua il grillo parlante a cui purtroppo non si dà mai ascolto. Il Don Rodrigo dei nostri tempi sarebbe un mafioso o un bullo, i bravi i suoi picciotti o complici. Ancora oggi molti uomini, come l'Innominato o frate Cristoforo, hanno una conversione che permette loro di chiudere con un passato indignitoso e cambiare vita. I Don Abbondio e gli Azzeccagarbugli di ieri non sono diversi da quelli di oggi. E poi l'episodio di Cecilia, sicuramente tra le pagine più belle del romanzo perché l'autore raggiunge il culmine del pathos. La tragedia di una bambina di nove anni e di sua madre non è molto diversa dalla tragedia di Aylan o di uno dei tanti, troppi bimbi morti in mare tra le braccia delle loro madri. Il sentimento profondo di pietà uguale, ieri come oggi, con l'unica differenza che l'uomo di allora non aveva mezzi per fronteggiare l'epidemia. Il dramma di Lucia che deve lasciare la sua casa e il suo paese quella di tanti disgraziati che migrano per fuggire la guerra e i soprusi di gente senza scrupoli.
Quando leggiamo un romanzo non è col finale che si giunge al raggiungimento di un obiettivo perché l'obiettivo non è il lieto fine. È come in un viaggio, a volte la meta può essere una delusione, ma quello che abbiamo provato mentre cercavamo di raggiungerla è la meta stessa, cioè soffrire e gioire con i personaggi, amandoli o odiandoli, condividendone le idee e le azioni o meno, sperando che ci sia il lieto fine o il finale che vorremmo. Ed è un lieto fine che Manzoni concede al lettore: prima che finisse l'anno di matrimonio era nata Maria Tramaglino a cui seguirono altri pupi "e Renzo volle che tutti imparassero a leggere e scrivere" (messaggio didattico e pedagogico di Manzoni). Quando Renzo ai suoi figli racconta le sue peripezie e gli insegnamenti che ne ha tratto (non fidarsi di nessuno, farsi i fatti propri, evitare la folla e i tumulti) non si sofferma sulle peripezie e sofferenze della moglie e Lucia, in un impeto di femminismo ante litteram, spiega, donna moderna del '600 che essere donna richiede un'autodeterminazione più difficile: superare il ricatto sessista, ma anche superare il ricatto affettivo, come se spiegasse che indossare una minigonna, e lei tra l'altro non la indossava, non autorizza l'uomo di ieri o di oggi a fare della donna una preda. Se lei non si è concessa è perché ha voluto e lo ha fatto per una sua scelta, anche se a Renzo sembra dovuta e scontata. Se avesse ceduto si sarebbe trasformata in Gertrude, ma il punto non è perdere la verginità, ma perdere la dignità di decidere di se stessa. E il suo atto di eroismo la rende un'eroina moderna "non una sempliciotta in balìa della Provvidenza".
Ricordiamo inoltre, come scrive Fois che "il romanzo italiano comincia, in linea di principio come il Giorno della civetta di Sciascia, nel senso che, come i viaggiatori che scompaiono dall'autobus in cui è appena avvenuto un omicidio per sottrarsi al vaglio degli inquirenti, anche nel caso di Don Abbondio niente accadrebbe se egli non fuggisse alla sua responsabilità di uomo di chiesa. Questo matrimonio non s'ha da fare è il motto non ufficiale del nostro Paese". E il veggente Manzoni apre il suo romanzo, nel 1840, con una minaccia mafiosa. I promessi sposi sono la storia del nostro Paese, ancora prima che si formasse, tanto che il suo autore scrive con l' intento didascalico di creare un Popolo, quello italiano, raccontando storie non di eroi, ma di gente comune, eroina nella vita di tutti i giorni, davanti alle prove che la vita impone.
Fu vera gloria? I posteri e la storia hanno già dato sentenza: sì! Perché "ci sono romanzi che rovesciano il mondo, anzi direi che non c'è altra strada per un romanzo per diventare immortale, che rovesciare mondi, il proprio e quello altrui".
Marta Galofaro
ELETTRA DI EURIPIDE PER LA REGIA DI WALTER MANFRE'
Quale il ruolo dell'uomo nella vicenda tragica? È vittima o carnefice? I sofisti erano arrivati ad un antropocentrismo incontestabile e ad attribuire alla parola valore ontologico: "Molte sono le forma dei destini umani" è, non a caso, la conclusione di alcune tragedie di Euripide. Il personaggio davanti ad una situazione reale può reagire in infiniti modi, può possederla ma anche essere posseduto a secondo di come si mescolano eroismo e fragilità. Nell'Atene del tragediografo la lirica si sostanzia. L'orrore della guerra e il desiderio di pace, la crisi delle istituzioni e il disorientamento che ne consegue portano a sentire il fatto artistico come soddisfazione di un bisogno di evasione e di fruizione. Dopo la crisi politica che segue la guerra del Peloponneso, la Grecia si avviava ad un nuovo equilibrio politico in cui l'uomo di cultura e l'artista erano dissociati dalla vita politica e in Euripide è possibile cogliere il passaggio dall'età classica a quella ellenistica, il passaggio da una dimensione universale ad una dimensione più intima e privata.
A Comiso, nella suggestiva location della Cripta della chiesa di San Francesco all'Immacolata, un cast straordinario ha portato in scena Elettra di Euripide per la regia di Walter Manfrè.
Arianna Di Stefano e Mauro Racanati interpretano magistralmente Elettra e Oreste prigionieri, captivi del dolore e del rancore da cui, come in gabbia, non trovano vie d'uscita. La loro è una schiavitù interiore che non permette di elaborare il lutto per il padre Agamennone. Ma è proprio questa prigionia a rendere particolarmente vicina alla nostra sensibilità quest'opera.
Euripide supera la dimensione mitica per raccontare la condizione in cui vivono due figli tormentati al punto da commettere il più efferato e contro natura dei delitti: il matricidio. E il matricidio nell'Elettra di Euripide è un fatto personale. Elettra, una regina, compare nella quotidianità in cui si adatta a vivere spogliata di tutto e sposa di un contadino povero. Lo scenario tragico si è completamente dissolto per lasciare il posto a figure quotidiane e borghesi. Persino Clitennestra non è la regina sanguinaria, ma una donna che negli anni ha riflettuto ed è maturata: non gioisce più dell'antico delitto e si precipita dalla figlia non appena la manda a chiamare, disposta a perdonare la minaccia di morte che lei le rivolge. È naturale che il sentimento dei fratelli subito dopo il matricidio, non sia di soddisfazione ma di raccapriccio. Elettra convince Oreste ad uccidere "l'infame Tindaride", ma il giovane è privo di qualsiasi connotazione eroica.
Nella cripta dell'Immacolata la scenografia scelta da Manfrè è essenziale, ma concreta e simbolica al contempo: al centro della scena un cervello intorno al quale Elettra gira in maniera ossessiva: con Manfrè la moderna psicanalisi è vera protagonista dell'Elettra. All'opera di Euripide non è stata cambiata una parola e il dramma di ieri è il dramma di oggi, non a caso il prologo del Passeggero, interpretato con naturale scioltezza da Giorgio Lupano in abiti moderni, crea un'atmosfera di immediata familiarità. Il cervello al centro della scena è la chiave di tutto, Elettra ci trascina nel suo rimuginare il passato, nei suoi pensieri di morte e riuscirà a trasportarvi anche Oreste e a coinvolgerlo nel matricidio. Manfrè ha voluto "cercare di addentrarci nei flussi di natura psicoanalitica intercorrenti all'interno dei personaggi del Mito e fra essi e l'uomo dei nostri giorni". Così "le vicende di Elettra, Oreste e Clitennestra passano in secondo piano e sembrano diventare sfondo rispetto alla necessità di autodistruzione, che anima i nostri nuclei familiari contemporanei. Forse anche se Clitennestra non avesse ucciso Agamennone e Agamennone non avesse ucciso Ifigenia, forse anche in quel caso Elettra anelerebbe al sangue della madre. Come vi anelerebbe anche Oreste, pur se non fosse comandato dal dio".
Marta Galofaro
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di Marta Galofaro
Le regole per la convivenza e la diversità
Il rispetto della diversità, la tolleranza, uno dei concetti chiave dell'Illuminismo, è ancora oggi in discussione. Tollerare significa sopportare, ma sopportare può significare sottomettersi se si accetta qualcosa che danneggia. Quella che originariamente può sembrare la base della convivenza pacifica fra confessioni diverse ha acquisito nuovi confini e spostato la questione verso sempre più complessi problemi di definizione di regole per consentire la convivenza delle diversità. Riflettendo su questo tema di straordinaria attualità mi è tornato in mente un libro che ho letto molti anni fa: Gandhi parla di Gesù (E.M.I. della Coop. SERMIS, Bologna 1989).
Pur non essendo cristiano Gandhi imparò molto da Gesù di Nazareth. Era affascinato dalle Beatitudini in cui Gesù presenta un regno nuovo in cui trovano riscatto gli esclusi: gli umili, i poveri, le prostitute, i pubblicani. Le gerarchie sono rovesciate: si tratta di credere che la vittima sia meglio del carnefice. Per le vittime Dio c'è e interviene in loro favore nella concretezza della situazione. "Quando arrivai al Nuovo Testamento ed al Discorso della montagna,-scrive Gandhi- incominciai a capire l'insegnamento cristiano. [...]. Di tutto quanto lessi, ciò che rimase fisso in me fu il fatto che Gesù fosse arrivato quasi a dettare una nuova legge: non occhio per occhio, dente per dente, ma il prepararsi a ricevere due colpi quando se ne è ricevuto uno e a fare due miglia quando ne è stato richiesto uno solo". Da Cristo il Mahatma imparò il messaggio della non-violenza e della non-ritorsione. Il suo frequente riferirsi a Gesù e al Vangelo, la sua vita austera, la sua pratica della non violenza lo fanno un vero seguace di Cristo, pur non essendosi mai convertito. Egli non crede a Dio come unigenito figlio di Dio:"Considero Gesù come un grande maestro dell'umanità, ma non lo considero come il Figlio unigenito di Dio. La definizione, nella sua accezione materiale, è inaccettabile metaforicamente, siamo tutti figli di Dio"; "L'aggettivo generato-scrive ancora- ha per me un significato più profondo e probabilmente più sublime del suo senso letterale. Per me, esso implica una nascita spirituale". Le sue parole dimostrano che ha colto il più profondo insegnamento di Gesù ma non si è mai convertito perché in Europa nel nome di Gesù sono state compiute le più atroci stragi. "Guardando però a tutta la storia in questa luce, mi sembra che il cristianesimo debba ancora essere vissuto, a meno che non si dica che dove c'è amore senza limiti e senza alcuna idea di ritorsione, là c'è il cristianesimo". "Ma oggi come oggi mi ribello al cristianesimo ufficiale perché sono convinto che abbia distorto il messaggio di Gesù".
Gandhi arriva alla conclusione che non c'è niente nella Bibbia che non ci sia anche nel Corano o nei testi sacri induisti. Per cui essere un buon induista significa essere anche un buon cristiano. È questo forse il suo più grande insegnamento, anche perché include tutti gli altri.
"Ciascuno ha ragione dal suo punto di vista, ma non è impossibile che nessuno abbia torto. Di qui la necessità della tolleranza, che non significa indifferenza verso la propria fede, ma un amore più intelligente e puro. La tolleranza ci permette le penetrazione spirituale, che è lontana dal fanatismo come il Polo Nord dal Polo Sud. La vera conoscenza della religione fa cadere le barriere tra fede e fede. La tolleranza per le altre fedi ci permette una più giusta comprensione della nostra".
Chi legge il nuovo testamento si mette in cammino, percorre le strade che ha percorso Gesù, nascendo, crescendo, morendo con Lui e, infine, resuscitando con Lui. Il cammino compiuto dal figlio di Dio dalla sua nascita alla sua resurrezione è il cammino che ogni uomo deve compiere. Ognuno di noi deve risorgere nella ricerca del divino che è dentro. M. Buber ne Il cammino dell'uomo (Edizioni QIQAJON 1990, Magnano) indica proprio il percorso che si deve compiere per trovare se stessi e Dio e per rispondere, perché è questo che un giorno ci verrà chiesto, se siamo stati noi stessi, dopo aver trovato la nostra strada; potrebbe essere anche la più buia e la più tortuosa, ma è la nostra e non va cercata dove è più facile ma dove si sa di poter trovare. Nel percorso di ogni vita bisogna prima trovare se stessi, evitando di prendersi come fine o di sbirciare dentro gli altri. "Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano". Appropriata la metafora del gioco della dama. L'uomo è una pedina che fa parte del grande gioco della vita ed esclusivamente dopo aver guardato solo in avanti ed aver raggiunto il limite della scacchiera-vita diventa "dama" e può muoversi in tutte le direzioni che vuole. Per Buber "Dio abita dove lo si lascia entrare" perché "l'universalità di Dio consiste nella molteplicità infinita dei cammini che conducono a lui, ciascuno dei quali è riservato a un uomo". Come scriveva Gregorio Magno "Scriptura sacra mentis oculis quasi quoddam in seculum opponitur ut interna nostra facies in ipsa intuatur".
Marta Galofaro